Carlo entra in ufficio in perfetto
orario, come tutte le mattine del resto, e prima ancora di togliersi il
cappotto e posare sulla scrivania la borsa portadocumenti, afferra il telefono
e compone il numero di casa, casa che ha lasciato da non più di un quarto
d’ora, massimo venti minuti.
“Pronto, Anna?”, Anna è sua moglie,
che ha appena salutato prima di recarsi al lavoro. Inspiegabilmente, avverte
quest’impellente necessità di risentirla al telefono appena messo piede in
azienda. Mara, la sua collega di stanza, lo guarda sconsolata e rassegnata. Il
rituale di ogni mattina va rispettato. “Anna, amore, iniziamo questa nuova
giornata (con la variante, il lunedì, iniziamo questa nuova settimana), il
tempo è così così, ma sembra non faccia freddo. Allora ciao amore, a tra un
po’”. Il “tra un po’” è stimato in circa un’ora, tempo massimo prima di
risentire nuovamente la voce di Anna. E
così per tutta la giornata, a scadenze più o meno regolari parte la telefonata
di contatto. Mara si chiede quale sia il problema di questa coppia. Il fatto
curioso è che ormai quest’abitudine è divenuta talmente automatica che Carlo
non si rende neppure conto degli sguardi di compatimento che gli rivolgono i
colleghi. Mara si immagina questa Anna come una creatura che quantomeno è
portatrice di un qualche deficit cognitivo o qualche sia pur lieve ritardo
mentale. Diversamente, non c’era spiegazione a un tormento come quello. La
dipendenza è reciproca poiché se per qualche motivo Carlo non rispetta gli
orari consueti, Anna si scatena con chiamate al fisso o al cellulare. Sembra
che la voce del marito abbia un effetto sedativo sull’equilibrio mentale di
questa donna, o almeno rassicurante quel tanto che basta a occuparsi di
qualcos’altro nella giornata.
Però presto l’aspetto organizzativo dell’ufficio sarebbe cambiato, Carlo
ancora non ne era stato messo a conoscenza ma la dirigenza aveva deciso di
applicare la linea dura per quanto riguardava le telefonate personali e in
genere gli impegni extralavorativi che distoglievano in qualche misura i
dipendenti dallo svolgimento delle proprie mansioni. Sarebbe stato un problema
dirlo a Carlo tanto più che il manager aveva incaricato proprio Mara di dare la
poco lieta novella al suo collega, motivando la richiesta con il fatto che tra
loro due vi era indubbiamente maggior affiatamento reciproco dato
dalla condivisione dello stesso ambiente da più tempo.
Il giorno successivo Carlo stranamente si
assenta per malattia un paio di giorni e il direttore prega Mara, in via
eccezionale, di contattarlo per parlargli. Non vorrebbe apparire troppo rude nel
comunicargli le nuove linee d’indirizzo dell’azienda e allo stesso tempo tende
a evitare, quando possibile, questo genere d’incombenze. A questo punto, Mara
chiama Carlo e gli chiede un incontro poiché ha bisogno di parlargli. Carlo è
sulle corde, sembra a disagio e dice alla collega che al momento non può
assentarsi da casa. Mara si offre di passare da lui nel tardo pomeriggio, a
fine lavoro. Eviterebbe volentieri quest’incontro ma ormai è troppo tardi per
tirarsene fuori in qualche modo. Poi non vuole inimicarsi il direttore che le
ha chiesto questo favore a titolo personale e in più si è affezionata a Carlo,
a quel suo modo timido di esistere, quasi in punta di piedi, riservato, gentile,
una persona per bene.
Il condominio di periferia è grigio,
anonimo, incastrato in una fila di palazzine tutte uguali, circondate da pochi
giardinetti spelacchiati. E’ già buio quando Mara suona al citofono, la voce di
Carlo la invita a salire al secondo piano. L’ingresso è piccolo e spoglio, Mara
è guidata verso un salottino buio, illuminato soltanto da una lampada a parete.
Anna, la moglie di Carlo è seduta su una poltrona affiancata al muro. E’
piccolina, infagottata in una tuta grigia troppo grande per lei. Le sorride,
sulle ginocchia un cagnolino minuscolo che alza la testolina al suo ingresso.
Di fianco alla poltrona sono posate due stampelle. “Mia moglie Anna, lei è la mia collega Mara”.
Dopo le presentazioni e qualche convenevole, Carlo e Mara si chiudono la porta
alle spalle. Con la scusa di passare a prendere il latte e di accompagnare per
un tratto la collega, i due si ritrovano in strada.
“Dimmi pure Mara, preferisco
che mia moglie non sia presente al nostro colloquio. E’ molto fragile, voglio
evitarle qualsiasi emozione per non turbarla ulteriormente. E’ affetta da una
rara malattia che attacca il sistema nervoso centrale e che se la sta portando
via giorno dopo giorno. I medici purtroppo ci danno poche speranze e Anna è
precipitata in un grave stato depressivo. Sente di avere poco tempo ed ha solo
me al mondo. Dobbiamo contare l’uno sull’altra, abbiamo soltanto un aiuto
saltuario da parte di un’associazione di volontariato. Le fanno un po’ di
compagnia quando io sono al lavoro e la aiutano nelle necessità
quotidiane. Io rappresento il suo unico
punto di riferimento e quando non sono con lei, la rassicuro come posso, questo
contatto frequente per lei è essenziale, l’ha confermato anche lo psicologo dell’associazione,
le serve per non mollare del tutto e per continuare a lottare per quanto
possibile… Ma tu, che cosa dovevi dirmi Mara, a proposito del lavoro?”.
“Ma in verità niente che non avrei potuto
dirti anche al tuo rientro, soltanto che avevamo pensato di organizzare una
cena, tra noi colleghi una di queste sere e volevamo chiederti se ti farebbe
piacere essere dei nostri. Ma non c’è fretta, pensaci pure e poi ci dirai. Ciao
Carlo, si è fatto un po’ tardi, salutami ancora Anna”.
Mara si allontana in fretta attraversando
le aiuole spoglie. E’ davvero tardi, deve rincasare e non sa che cosa preparare
per cena. Sente una stretta serrarle la gola e ricaccia indietro le lacrime.
Una sensazione di gelo la attraversa da
capo a piedi. “Fa davvero freddo” dice a se stessa stringendosi il cappotto
sulle spalle.
Paola
Bosca.
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